Tula: Muraglia Ciclopica di “Sa Mandra Manna” e le Incisioni su Pietra 

“Nei nostri villaggi nuragici, tutti i ragazzi/e venivamo allevati per diventare autonomi. Dovevamo conoscere l’arte della lavorazione dei metalli, della ceramica, della conciatura delle pelli, della coltivazione della terra, della caccia, della tessitura e via discorrendo. Ciò che a me piaceva di più era scrivere. Il nostro modo di scrivere era semplice, composto da diverse aste e fori, ma occorreva studiarli a memoria. Ed io, Meside, ero diventata la più brava.

Un tempo si scriveva solo su alcuni massi di pietra opportunamente allisciati, su dei conci o su dei vasi, poi abbiamo scoperto che scrivere sulle cortecce dell’albero era molto meno faticoso e più facile al trasporto. Fu così che il sughero divenne il supporto più adatto alla scrittura. Lo si doveva lavorare, prima, per renderlo più liscio; una volta pronto, con un uncino di metallo arroventato, si facevano delle incisioni. Scrivere quel che i saggi ci dettavano era per me un grande onore. E considerai un grande privilegio personale il giorno che mi comunicarono che dovevo essere io la dea, quell’anno, per la celebrazione del giorno uguale alla notte. Era la cerimonia più bella che si celebrava al villaggio. La cerimonia della rinascita, per il passaggio dal periodo buio e freddo a quello della luce e del caldo. L’equinozio rappresenta il giorno nel quale la durata dello splendere della luce del sole di giorno eguaglia la permanenza del buio della notte. Da tempo eravamo tutti intenti ad abbellire Sa Mandra Manna, la nostra muraglia magica, con ramoscelli di mandorlo in fiore, mirto ed erbe profumate. Non partecipava solo il nostro villaggio, ma arrivavano anche dai villaggi vicini. Questi si accampavano, giorni prima, accanto alle nostre capanne e ci riempivano di doni.

Ecco la dea, dissero. Era questa la frase che dava inizio alla cerimonia. Io dovevo passare tra due ali di fanciulli tutti vestiti di bianco, come me, salvo il fatto che io indossavo una maschera. Era una “caratza” di legno, resa bianca da numerosi petali di margherite. Dovevo passare nel primo ingresso del muro, e fermarmi alla fine. Quando i raggi del sole mi avrebbero illuminata del tutto, io mi sarei dovuta chinare per onorare il sole e far sì che questi oltrepassasse la porta del muro dando così inizio alla festa della vita. Era il momento topico in cui la terra ed il sole emanavano l’energia più pura, essenza vitale per la nostra esistenza. Tutti i presenti, ben prima di me, erano passati attraverso la prima porta, e con la mano destra, al passaggio, dovevano sfiorare la scrittura sacra posta su di un lato e fare un breve inchino. Erano parole scolpite da tempo immemore, dettate dai grandi saggi del passato. Parole sulla vita che vanno dritte al cuore. Passando attraverso la porta, veniva consegnato loro un ramoscello di profumatissima “armidda” (timo). Una volta dentro dovevano salire sulla muraglia per assistere allo spettacolo. Canti e balli continuavano per tutto il giorno e la notte, mentre io, che ero la dea, stavo seduta sul trono al centro della piazza. Per un anno ho avuto il privilegio di essere una dea; tutti venivano da me cercando di sfiorarmi per poter ricevere la loro dose di energia e di fortuna. Che onore e che emozione; io, Meside, dea per un anno. Ogni dea o dio, doveva insegnare l’arte nella quale si era contraddistinta. Io ero la dea della scrittura. Insegnai ai ragazzi del villaggio a scrivere. Ero talmente brava che arrivavano persino dai nuraghi più lontani per apprendere l’arte dell’incisione e della scrittura. Continuai a farlo per tanti, tantissimi anni, tant’è vero che tutti mi chiamavano Meside, la dea della scrittura. Credo di aver dato tanto al mio popolo, ed ora, che i miei capelli non hanno più il colore della notte, le mie gambe a stento mi sorreggono, le mie mani tremano, sono qui, seduta accanto alla grande scrittura dei saggi, a Sa Mandra Manna, ricordando, con malinconia, quel grande giorno, e, mentre aspetto che le stelle vengano a prendermi per il lungo viaggio, spero e sogno che ciò che io ho scritto e fatto scrivere venga un giorno riletto, capito, studiato da chi a distanza di centinaia e centinaia di lune si ritroverà lì, davanti alle nostre incisioni nuragiche, e che, magari, riesca a risalire al mio nome per poter, in tal modo, celebrare me, Meside, la dea della scrittura.”

Pura fantasia questa, dal momento che ancora nel XXI secolo si è solo agli albori dello studio del metodo di scrittura dei nuragici; certo è che i nuragici scrivessero. Le incisioni che si trovano a Tula, nella parete destra del grande corridoio di accesso al complesso della muraglia megalitica de Sa Mandra Manna, non è invenzione fantastica, è pura realtà. Essa è composta da diverse aste non tutte incise verticalmente, alcune sono oblique. In più troviamo dei fori di diverse dimensioni. Sa Mandra Manna è una muraglia ciclopica, lo si evince da ciò che ancora è rimasto. Non si conosce la sua utilità, si pensa non sia stata una semplice opera difensiva, bensì un osservatorio astronomico. Il fatto che il sole penetri in una delle sue porte, attraversi tutto il corridoio lungo più di dieci metri ed esca nella porta opposta, solo nei giorni degli equinozi ne è la prova. Molti studiosi datano questo monumento attorno al 2700/2200 a. C.; per la presenza di una Tomba dei Giganti e di diverse coppelle altri lo datano al periodo strettamente nuragico.
A mio avviso nessuno ha impedito ai nuragici di adattare una struttura preesistente che ha preceduto i nuragici di svariati secoli se non, addirittura, di millenni. 
Invito gli appassionati ed anche gli scettici ad andare ad ammirare personalmente quest’altra meraviglia che i nostri popoli (prenuragico e nuragico) ci hanno lasciato e a farsi pervadere dall’energia che essa emana, immergendosici.

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Nughedu San Nicolò: Santuario Nuragico di Cùcuru Mudeju

Sotto lo sguardo vigile delle Domus de Janas di Pianu Edras che da millenni rivestono il ruolo di sentinelle indiscusse di quel che fu, in passato, un luogo sacro per la Civiltà degli Antichi Sardi, si trova il Santuario Nuragico di Cùcuru Mudeju. Siamo nel territorio di Nughedu San Nicolò, in una zona abitata sin dal neolitico, come testimoniato dalle numerose “concheddas o domus” presenti tutto intorno.

Nella parete di una piccola collina riaffiorano i resti di quel che doveva essere una vasta ed incantevole area sacra. Purtroppo non è rimasto molto, dal momento che nel corso dei millenni il sito ha subito forti devastazioni, ma quei pochi conci residuali sono sufficienti per farci capire quant’era stupendo, nel periodo del suo massimo fulgore, questo tempio. A prima vista, le pietre lavorate, raffiorando dal terreno, paiono come delle braccia che dal passato si aggrappano al futuro; quasi come a volerci sussurrare qualcosa, nel tentativo di farci capire cos’era quell’area un tempo. Si presenta con capanne rituali circolari, dove sono evidenziati, lungo tutta la circonferenza interna, dei sedili. Numerosissimi conci parallelepipedi di basalto e tufo trachitico a T popolano l’intero sito; essi sono perfettamente lavorati e rifiniti. In un flashback improvviso ciò mi riporta ad altri santuari sardi, come, per esempio, Gremanu (a Fonni), Serra Niedda (a Sorso), Santa Vittoria (a Serri), su Monte (a Sorradile), Giorrè e Punta de Onossi (a Florinas), Corona Arrùbia (a Genoni), Carcaredda (a Villagrande Strisaili) e Monte Sant’Antonio (a Siligo); appare chiaro, per l’appunto, che il tipo di pietra usata (basalto e tufo trachitico) e la foggia dei conci risulti simile in tutti i santuari nuragici sparsi nell’intera isola.

Questo di Nughedu San Nicolò rimane, però, unico nel suo genere, grazie alla testimonianza scultorea giunta sino a noi dalla notte dei tempi e custodita nel locale museo. Trattasi di una elegantissima e raffinata testa bovina (conosciuta anche come “Toro Nero”), realizzata in trachite “nera” che, ancora una volta, ci testimonia non solo l’abile maestria degli scalpellini del passato, ma anche la devozione di questo nostro popolo al dio Toro.

All Rights Reserved © 2017 – Testo di Piera Farina-Sechi
All Rights Reserved © 2017 – Foto di Bruno Sini *

*) La fotografia del Toro è tratta dalla pagina Facebook: Monte Prama Novas

Buddusò: Fonte Nuragica “Sos Muros”

Nascosto da una pittoresca e rigogliosa vegetazione, sulle fresche rive del Tirso, giace, nel silenzio più totale, quello che fu, un tempo, un vasto ed esteso villaggio nuragico. Centinaia e centinaia di ruderi, di capanne e torri unite tra loro da viottoli, ci catapultano indietro di millenni facendoci capire quanto fosse imponente ed importante, nel periodo nuragico, questo sito. Le fronde degli alberi, filtrando i raggi del sole, ci donano un’immagine ancora più misteriosa del posto. La fantasia, nell’ammirare il tutto, galoppa a tal punto da immaginare quel sito pulsante di vita. Sagome di sacerdotesse, arcieri, oranti, pastori, madri, bambini … di tutto un popolo, insomma, paiono aggirarsi in quel che ora è un insieme di vestigia abbandonate. Non ci si stanca mai di osservare quel che rimane, come non smette mai di chiedersi perché non venga curato, cercando di salvare il salvabile.

Due cose mi hanno colpito in particolare. La prima è una specie di anfiteatro, una maestosa costruzione a ferro di cavallo; l’altra è la fonte. Quest’ultima è un gioiello dell’arte costruttiva nuragica. Purtroppo la parte iniziale è stata distrutta (molto probabilmente a causa di scavi clandestini alla ricerca di inesistenti tesori). Si possono osservare architravi e diversi conci sparsi nell’area dove un tempo doveva esserci il vestibolo. Proseguendo ancora in avanti di pochi passi si arriva alla cella della fontana che, purtroppo, pare avere il futuro compromesso a causa della presenza di un grosso albero le cui radici hanno già spezzato un architrave di copertura e, disgraziatamente, seguiterà a distruggere ciò che rimane del monumento, se non si interverrà per tempo. La camera della fonte nuragica è molto ben rifinita ed è coperta a piattabanda da due lastroni di granito, uno dei quali seriamente danneggiato. Forse le immagini delle foto, più che la descrizione, riescono a dare l’idea dello splendore della fontana.

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